PESCARA. Agnese Moro ha la stessa faccia del padre Aldo, rapito dalle Brigate rosse, tenuto prigioniero per 55 giorni e ritrovato ucciso il 9 maggio del 1978 dentro una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani a Roma. «Hai una faccia che non si può guardare», così le ha detto un ex Br quando l’ha incontrata: nel viso di Agnese vedeva il riflesso del padre che aveva condannato a morte. «Per lui, la mia faccia richiamava un’altra faccia, cioè la faccia della persona che lui si era portato via e che aveva consegnato a quelli che poi lo avrebbero ucciso», racconta la terzogenita dello statista, ieri a Pescara per “Itinerari di senso”, un incontro sulla giustizia riparativa organizzato dallo studio Iris che si occupa di mediazione penale. «Da loro» – e «loro» sono «i mostri» che poi si sono redenti – «ho imparato a disarmarmi: ho imparato che se vuoi ascoltare qualcuno, devi lasciare da parte tutto quello che pensi di sapere, via i pregiudizi, e metterti lì a sentire».
Agnese Moro racconta il suo peregrinare dal dolore al perdono: un viaggio lungo 31 anni, dal silenzio che logora alle parole che alleviano. Quando il padre è stato ritrovato senza vita, ricorda, «avevo 25 anni, non ero piccola ma non ero neanche così grande per affrontare una cosa del genere. La mia reazione è stata chiudere questi sentimenti orrendi in un posto dentro di me». Ma il silenzio scava e alimenta «un dolore armato»: «Un dolore arrabbiato, pieno di rancore, di orrore, di disgusto. Per i comportamenti, per l’insensibilità, per la violenza e per tutte quelle cose che sono successe in quei giorni e di cui la mia famiglia è testimone. Un dolore che urla e scalpita, non un dolore dolce».
Un sentimento innescato da un’assenza troppo ingombrante: «Prima avevo un padre e poi non ce l’avevo più; prima c’erano delle persone che lavoravano insieme a lui, poi gli uomini della scorta non c’erano più». C’è un prima e c’è un dopo: «Da quel momento, per me, è iniziata una discontinuità con la vita precedente: quando una persona cara viene uccisa, certamente perdi la vita futura con lui perché non puoi più parlarci ma stranamente perdi anche la vita precedente. Quella vita precedente viene contaminata e resa totalmente differente dalla presenza di una cosa strana che prima non c’era: il sangue. Nella mia esperienza di femmina il sangue c’era, era il sangue delle mestruazioni e dei parti, ma si tratta di un sangue che parla di vita mentre l’altro è un sangue diverso, è il sangue di mio padre». E succede che, da quel momento, le macchie rosse sembrano comparire un po’ ovunque, anche a imbrattare i ricordi dei giorni belli: «Tutte le foto tenerissime di me con mio padre mi sembravano sporche di sangue e piene di dolore».
Ma, dice Moro alla platea con l’ex sindaco di Pescara Marco Alessandrini, figlio del giudice Emilio ammazzato a Milano il 29 gennaio 1979, pochi mesi dopo l’esecuzione dell’allora presidente Dc, qualcosa può succedere: «Qualcuno mi è venuto incontro perché è difficile che tu prenda e vada verso la giustizia riparativa. A me è venuto incontro padre Guido Bertagna: era l’antivigilia di Natale del 2009 ed erano passati 31 anni dalla morte di mio padre. Lui mi ha proposto di partecipare a un incontro richiesto da alcune persone che avevano fatto la lotta armata. Inizialmente ho detto di no. Poi, mi sono resa conto di una cosa: per la prima volta dalla morte di mio padre qualcuno si interessava del mio dolore: nessuno in 31 anni mi aveva chiesto come stai». Partecipare agli incontri, prima con i familiari delle vittime e poi con i carnefici, è stato come tornare a respirare, «non a pieni polmoni ma pur sempre a respirare». Come liberarsi di un peso che opprime il torace.
Il perché della giustizia riparativa è il mistero dell’uomo: «Mi ha toccato conoscere il loro dolore. C’è un abisso di dolore che non mi aspettavo: non pensavo che persone che avevano fatto cose così orrende potessero non aver perso la loro umanità. E mi ha fatto bene vedere i loro visi perché il viso non mente mai: sui visi ci sono le storie e i sentimenti delle persone; ci sono gli anni che sono passati mentre, per me, quel passato non era mai trascorso: per me, mio padre veniva abbandonato a se stesso e ucciso ogni giorno. Invece, quelle persone non erano più le stesse che avevo visto nelle gabbie durante i processi».
Moro prosegue e racconta la sua esperienza di giustizia riparativa: «Questo percorso è fatto di dire, raccontare, spiegare e rimproverare. Per me è stato importante dire a loro: ma tu lo sai cosa mi hai tolto? Lo sai cosa ho perso io? Alla giustizia penale di queste domande non gliene importa niente: lì si parla di un reato mentre io parlo di una cosa che è stata fatta a me e di come la mia vita è cambiata». È dificile riuscire a perdonare ma è una salvezza: «Il male non ha avuto la meglio».