
CHIETI. Un’odissea durata un anno intero. La fuga improvvisa dall’Afghanistan, i nove mesi da rifugiati in Pakistan e la speranza di ricominciare una nuova vita a più di 6mila chilometri di distanza, a Chieti. La famiglia Rahmani ha vissuto gli ultimi 12 mesi con la paura e la speranza nel cuore. Tanto hanno dovuto attendere prima di poter salire su un aereo che li portasse in Italia, dove la mano nera del regime talebano non può allungarsi.
il colpo di stato
Era il 15 agosto del 2021 quando la capitale afghana, Kabul, è caduta ufficialmente nelle mani dei talebani. La ritirata degli occidentali è stata accompagnata da scene da brividi: aerei al decollo assaltati da disperati, in cerca di una via di fuga, e violenze ripetute per tutti coloro che avevano collaborato con americani ed europei. Ma da quel giorno sui soprusi dei talebani è calato progressivamente un velo di pericolosa abitudine: il destino del popolo afghano è tornato a galla solo quando gli episodi di violenza e crudeltà sono riusciti a bucare gli strati di indifferenza della routine occidentale. Fortunatamente, però, la macchina della solidarietà si stava già muovendo sotto traccia per restituire speranza ai profughi.
Nel mirino dei talebani I Rahmani vivevano a Konduz, città da oltre 268mila abitanti nel nord-est del Paese. Sono stati costretti a rifugiarsi in Pakistan dopo essere finiti sulla lista nera dei talebani: la loro unica colpa è di aver collaborato con le organizzazioni umanitarie americane ed europee presenti in Afghanistan.
Dopo nove mesi di paura, si è finalmente attivato un corridoio umanitario per portare in salvo papà Khairuddin, 49 anni, sua moglie Shah Begum, più giovane di cinque anni, il loro figlio più grande Abas, che ha 26 anni e si è portato con sé la moglie Shamila (incinta di sei mesi), e gli altri cinque figli di papà Khairuddin: la 20enne Parasto, il 19enne Mirwais, la 15enne Nilab e Sohail, che ha 12 anni ed è il più piccolo della famiglia. Un aereo militare li ha portati a Fiumicino, il 3 agosto sono riusciti ad arrivare a Chieti dove proveranno a ricostruirsi una vita.
L’integrazione «Il protocollo per i corridoi umanitari è stato firmato un anno fa, ma solo adesso, con grande ritardo, siamo riusciti a sbloccarlo», spiega Daniele Licheri dell’Arci, che ha seguito la famiglia Rahmani dal primo giorno in Abruzzo. «Abbiamo scelto Chieti come base di accoglienza perché avevamo trovato subito un locale disponibile. E poi è una città a misura d’uomo, l’ideale per chi ha bisogno di rifarsi una vita. È stata una fortuna trovare un posto disponibile in centro storico perché così potranno integrarsi meglio». Da poche settimane i Rahmani vivono a Chieti ma non sono mancate le difficoltà, dovute soprattutto alle condizioni di Shamila, moglie del giovane Abas, al sesto mese di gravidanza, «è arrivata qui completamente disidratata», racconta Licheri, «aveva dei calcoli renali e abbiamo subito provveduto alle cure in ospedale, ma per fortuna ora le sue condizioni sono migliorate. Suo figlio nascerà qui da noi». Adesso il lavoro dell’Arci si sta focalizzando soprattutto sull’integrazione: «Sono tutti istruiti e vogliono subito lavorare e andare in università», conclude Licheri, «non avevano scelto di essere catapultati in Italia, ma ora vogliono rifarsi una vita qui da noi dopo tanta sofferenza».