PESCARA. Forse resterà un mistero il movente che il 17 maggio dello scorso anno, a Civitaquana, fece scattare in Nico Fasciani, 26 anni, la furia omicida che lo portò a sparare diversi colpi di pistola contro lo zio Giancarlo Fasciani, e contro la compagna di quest’ultimo, Paola Palma, miracolosamente rimasti vivi, anche se gravemente feriti. Sta di fatto che il pm Fabiana Rapino l’11 gennaio scorso ha deciso di chiudere l’inchiesta con l’avviso di conclusione delle indagini che cristallizzano, a carico dell’indagato, il reato di duplice tentato omicidio, con l’aggravante della premeditazione, e porto abusivo d’arma.
I suoi difensori (Guido Carlo Alleva di Milano e Maura Morretti di Pescara) hanno cercato in tutti i modi di convincere il proprio assistito a fornire un perché di tale violenza, ma senza riuscirvi. Nico si è trincerato dietro la facoltà di non rispondere alle domande del gip Fabrizio Cingolani nell’interrogatorio di garanzia e da quel momento non ha mai voluto essere interrogato dal magistrato. resta l’ipotesi, emersa nel corso delle indagini, secondo cui dietro questo inspiegabile raptus omicida, ci sia una questione di droga.
Una teoria supportata in parte dall’esame dei cellulari che il pm allargò non solo a quello dell’indagato, ma anche a quello delle due vittime, proprio per comprendere meglio il contesto nel quale è maturata quella sparatoria.
Nico quel giorno entrò in casa dello zio, chiese di andare in bagno e pochi istanti dopo ne uscì impugnando la pistola che aveva portato con sè (una Beretta calibro 22), iniziando a sparare contro la coppia per poi scappare e rifugiarsi a casa sua, dove i carabinieri lo rintracciarono poco dopo. Quando i militari lo raggiunsero, era con il padre e disse soltanto poche parole, le uniche proferite ad oggi: «Ho fatto una cazzata, la pistola è dentro la mia macchina», una sorta di confessione. Era stata Paola Palma, nonostante le gravi ferite riportate sul volto, a telefonare ai militari e a indicare in Nico il responsabile di quel duplice omicidio mancato.
Contro l’indagato pesa enormemente la relazione del medico legale, Ildo Polidoro, che stabilì come quegli otto colpi (quattro raggiunsero lo zio e altri quattro la sua donna) esplosi da Nico fossero finalizzati d uccidere: sparati in faccia allo zio e alla sua compagna, quindi in parti vitali, come dettagliatamente viene riportato nel capo di imputazione.
Per Palma «plurime lesioni al volto ove veniva raggiunta da tre proiettili e uno alla spalla, con conseguenti gravi limitazioni della funziona masticatoria, della capacità di articolare fonemi…», e cagionando a Giancarlo Fasciani una «malattia insanabile, in quanto raggiunto da quattro proiettili di cui uno al neurocranio, con indebolimento permanente dell’organo della vista».
Una indubbia volontà di uccidere, secondo l’accusa. Dall’esame dei telefonini, come si diceva, sarebbero venuti fuori dei messaggi, sicuramente criptati, dai quali emergerebbe una delicata situazione tra i tre e altre persone, legate probabilmente alla pista della droga di cui Nico aveva fatto uso, e per la quale sarebbe stato anche invitato dallo zio a smerciarla per lui. Fu lo stesso Nico, appena arrestato dai carabinieri, a parlare della cocaina di cui faceva uso e che qualche volta gli era stata ceduta dallo zio Giancarlo.
Di certo l’indagato, restando tutto questo tempo in silenzio, rinchiuso nel carcere di San Donato, non fa altro che avvalorare la pista della droga e dei possibili timori che lo stesso potrebbe avere nello svelare i retroscena di quella sparatoria: se sia stata cioè una sua iniziativa, per questioni personali, o se abbia ricevuto un “ordine” preciso da una terza persona, e cioè da un ipotetico mandante. Da qui forse la paura di parlare.
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