PESCARA. «I numeri sono allarmanti» e raccontano di un «aumento dei maltrattamenti in famiglia» ma anche della «violenza tra i giovani» che è esplosa dopo il lockdown. Una delle istantanee scattate in questi giorni sui reati relativi al “codice rosso” viene scattata dal Gav, il Gruppo anti-violenza, un ufficio «interforze» nato a ottobre del 2020, «per una intuizione del procuratore aggiunto Annarita Mantini» e che poi «si è consolidato con l’arrivo del procuratore Giuseppe Bellelli». L’obiettivo era quello di «centralizzare all’interno della Procura un ufficio che si occupasse di tutti i reati del codice rosso», lavorando «insieme, in continua relazione con polizia e carabinieri attivi sul territorio». Un ufficio che riesce «a contingentare i tempi» grazie alla «stretta sinergia con i magistrati che si occupano di questi reati», con una attività «di equipe». «Una best practice, un unicum» targato Pescara «che il Csm sta valutando di implementare in ogni procura».
A parlare, dal Gav, è il sostituto commissario Cinzia Di Cintio, della polizia, uno dei componenti dell’ufficio insieme all’ispettore superiore Fausta Fellegara (polizia), al luogotenente Guido Mariani (carabinieri), e al maresciallo ordinario Agnese Fedele (carabinieri), coordinati dalla Mantini.
Parla di numeri allarmanti, quali sono?
«Nel 2020, da ottobre al 31 dicembre, i fascicoli processuali relativi a reati del “codice rosso” sono stati 55, nel 2021 sono stati 215 e quest’anno 150, di cui 136 per maltrattamenti in famiglia, che fanno registrare un aumento. I primi mesi del Gav, nel 2020, sono stati condizionati dal lockdown, dal fatto che non si potesse uscire. All’epoca le segnalazioni venivano lasciate anche nei carrelli della spesa. Dopo la riapertura, c’è stata un’impennata pazzesca e nell’ultimo periodo si registrano situazioni di disagio fortissimo dei ragazzi: tra loro la violenza sta aumentando. E a questi dati vanno aggiunti tutti quelli del territorio, delle forze dell’ordine. E anche l’applicazione diretta, da parte del Gav, di 44 misure cautelari, per lo più divieti di avvicinamento. Il lavoro portato avanti con la Facoltà di psicologia di Chieti, poi, ci restituisce l’immagine di un disagio dei giovani, dovuto al periodo di chiusura che hanno vissuto, con uno scollamento dalla realtà, una individualizzazione. Stando chiusi a casa, in ambienti violenti, hanno vissuto situazioni tossiche. E chi apprende certi comportamenti poi li replica».
Come si ferma questa deriva?
«È importante parlarne, fare prevenzione, tutti se ne devono fare carico. E serve una formazione continua, nelle scuole, non solo nella settimana dedicata alla violenza di genere. Non è detto che si debba necessariamente denunciare, c’è la misura dell’ammonimento. E si può parlare, non solo con noi e con gli uffici di polizia, ma anche con i medici di base, gli sportelli di ascolto come i centri anti-violenza e gli sportelli aperti nelle scuole. Anche il Gav è fruibile a tutti, al piano terra del palazzo di giustizia».
Ci sono stati episodi emblematici o ricorrenti?
«Abbiamo trattato delle vicende di abusi sessuali familiari su minori. Purtroppo il dato più emblematico è quello del maltrattamento in famiglia. E di recente ci siamo occupati di una persona che era stata segregata in casa». (f.bu.)