PESCARA. I rischi dell’autonomia differenziata, le origini di questo processo, le richieste avanzate e le possibili implicazioni per il Paese. Una «grande questione» che riguarda tutti gli italiani. Questo il tema al centro dell’incontro di oggi, alle 10,30, nella sede del candidato presidente Luciano D’Amico, in piazza Unione a Pescara.
Di “autonomia differenziata. La secessione dei ricchi” parlerà con D’Amico e Graziano Di Costanzo (ex direttore della Cna e candidato al consiglio regionale con il Pd), Gianfranco Viesti, economista, docente alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari e uno dei massimi esperti di economia internazionale e di federalismo.
Professor Viesti, l’autonomia regionale differenziata è una soluzione ai problemi che presenta oggi l’Italia?
No, semmai li aumenta e rende l’Italia un Paese meno governabile, con tutte le implicazioni che ne seguono: difficoltà per le imprese, che troveranno regole differenziate a seconda dei territori in cui operano, per il coordinamento delle operazioni amministrative, il rischio di disuguaglianze nei servizi ai cittadini. Un’operazione che potrebbe accrescere, non certo mitigare, il divario tra Nord e Sud, ma anche creare problemi di governabilità. L’Italia diventerebbe un Paese arlecchino per la sanità, l’istruzione, le infrastrutture, il lavoro, le politiche energetiche con “Regioni – Stato” che andrebbero per conto proprio, governandosi da sole.
Eppure il regionalismo italiano funziona male. Quindi, che fare?
Serve mettere ordine e rendere il sistema più efficiente, equo e giusto per i cittadini: meno regole, uguali per tutti, e minore disuguaglianza tra i diversi territori. Con l’autonomia differenziata andiamo nella direzione opposta, ingeneriamo una frammentazione delle politiche pubbliche, del sistema sanitario nazionale, della scuola italiana. Si torna verso quello che c’era prima dell’Unità d’Italia, non è un azzardo dirlo. E, attenzione, con problemi per tutti gli italiani, sono solo per il Sud. L’impostazione data al dibattito nazionale, in questo senso, è assolutamente errata: l’autonomia differenziata fa male a tutta l’Italia.
Si parla di secessione di fatto delle regioni più ricche. Lei condivide questa interpretazione?
Non solo di quelle più ricche, l’opportunità è data a tutte le regioni a statuto ordinario. Si rischia che ogni regione vada per conto suo, con regole diverse per le professioni, per i finanziamenti alle imprese, per la Protezione civile. Non vorrei che si dovesse pagare l’intervento dei canadair o dell’acqua dai territori vicini.
Esiste, tuttavia, una questione del Mezzogiorno che va affrontata.
La risposta è: se il Sud cresce, cresce anche l’Italia. Servono politiche mirate per tornare a produrre, a fare ricerca e innovazione, interventi in ambito fiscale, del welfare e delle infrastrutture che risultano decisive per la crescita di una regione. Il Sud necessita di tutto questo. L’autonomia differenziata non è una questione regionale, sarebbe riduttivo definirla tale. Il disegno di legge Calderoli approvato dal Governo implica trasformazioni radicali negli assetti di potere in Italia. Sono temi cruciali. E a definirli non può essere una semplice intesa tra Stato e singola regionale. Il male del Sud è la sua situazione rispetto alle dinamiche dell’economia mondiale. E’ un problema di come è collocato, di come è fatto, della storia italiana che è andata in un altro senso, di livelli di istruzione ancora troppo bassi. E’ un insieme di cause facilmente individuabili, ma sanabili.
Facciamo chiarezza sul processo di differenziazione, da dove parte e perché?
Parte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, già nel 2017, che hanno fatto delle richieste precise: più potere in materia di politiche pubbliche, sanitarie, ambiente, infrastrutture, energia, cultura. L’elenco è lunghissimo. Hanno chiesto più soldi per gestire questi canali di quanti lo Stato non ne spenda per loro. Poi, è stata la volta di Piemonte, Liguria e Toscana, nel 2017, 2018 e 2019. Richieste che, se incanalate in un processo complessivo, potrebbero dividere l’Italia in tante parti, perché abbiamo cinque regioni a statuto speciale, ce ne sarebbero altre con autonomia differenziata, altre che resterebbero fuori da tutto. E a chiedere più autonomia sono tutte regioni del Nord sulla scorta dell’idea che “siccome siamo forti, ci teniamo i nostri soldi”. L’obiettivo è proprio avere più fondi. Il principio che c’è alla base non va bene: se vivi in un territorio più ricco hai più diritti.
Come contrastare quella che lei definisce la “secessione dei ricchi?
Informando i cittadini, convincendo i partiti a desistere, soprattutto Fratelli d’Italia e Forza Italia, che portano avanti la battaglia. Ci vuole una grande discussione informata anche sui rischi che ne deriverebbero per tutti: la frammentazione del Paese con politiche pubbliche meno efficienti, cittadini con diversi diritti in differenti aree geografiche e molto altro. Quando parte un processo del genere si conosce il punto d’inizio, non quello di arrivo, ma è pericoloso. Sono concetti che non esprimo solo io, lo hanno detto la Commissione europea e la Banca d’Italia. Lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio si è espresso in al senso.
Qual è il rischio a lungo termine?
Occorrerà molto tempo, ma l’Italia corre il serio pericolo di ritrovarsi frammentata, divisa e, quindi, più debole di fronte all’Europa. Ad esempio, per il Pnrr non sarebbe più la premier Meloni a parlare con l’Ue, andrebbero i governatori Zaia e Fontana. Ma tutto questo comporta un indebolimento della trattativa.
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