
ISOLA DEL GRAN SASSO. «Ovunque si respira l’odore acre della morte: io sono qui, davanti a me c’è l’orrore dei cadaveri lungo la strada». Così racconta Emanuel. È una storia, la sua, che parte da Isola del Gran Sasso e arriva fino a Bucha, la città vicino a Kiev diventata un simbolo del martirio del popolo ucraino.
È il luogo dove si è consumato il genocidio. E dove i bambini e le donne hanno subito violenze e atrocità da parte degli invasori russi.
SFIDA LA MORTE. A parlare è Emanuel Besleaga, 45 anni, pastore evangelico e cooperante che presta servizio, insieme ad altri volontari locali, per l’associazione Kerigma di Isola del Gran Sasso.
Il suo compito non è facile perché gli fa rischiare la morte in ogni attimo di vita. Riceve sul confine tra la Romania, la Moldavia e l’Ucraina, gli aiuti che i volontari raccolgono nel Teramano per distribuirli nelle città e nei villaggi bombardati. Vede la morte e la speranza negli occhi di chi incontra.
Così Emanuel è riuscito a entrare nell’inferno di Bucha. E lo ha fatto dopo la ritirata dell’armata di Putin. E quelle immagini che da giorni indignano il mondo lui le ha viste con i suoi occhi. «Un massacro senza precedenti in un paese fantasma: case distrutte, mezzi incendiati, cadaveri di civili riversi per terra, non hanno risparmiato nessuno, persino gli animali e si sente un odore di morte misto a puzza di bruciato», racconta il cooperante al Centro. La sua testimonianza diventa una prova dei crimini di guerra. Emanuel parla con la fermezza di chi ne ha viste tante e cerca di non abbandonarsi all’emozione che però, a tratti, spezza il tono deciso della sua voce.
CIVILI INDIFESI. «Accanto ai morti si notano oggetti di uso quotidiano che dimostrano senza alcun dubbio l’estraneità ai combattimenti e come questa povera gente sia stata giustiziata senza rappresentare una minaccia. All’occhio saltano, poi, i buchi delle raffiche tutto attorno senza contare che i volontari si sono trovati davanti le fosse comuni. Non c’è finzione, ma è la tragica verità. È la prima volta, in questa assurda guerra, che si arriva a così tanta spietatezza. Ciò che colpisce del villaggio ridotto a fumo e macerie sono il silenzio e la dignità di chi è rimasto, è sopravvissuto ma non ha più nulla», prosegue Emanuel che conosce bene la lingua italiana.
IL PIANTO E LA PREGHIERA. «Fa molto freddo, la neve scende piano, come se volesse rispettare il lutto di chi è morto. C’è chi vaga tra i cadaveri sporchi di fango e cenere perché cerca un parente disperso. E chi piange e prega sottovoce, ma nessuno tocca o sposta i corpi perché ha paura delle mine. All’arrivo del nostro Tir con le provviste dall’Italia la gente di Bucha è uscita dai nascondigli, dalle cantine e dai sotterranei, con lo sguardo pieno di terrore misto a tristezza, ma con il coraggio di chi ha fame: per troppo tempo non sono arrivati aiuti, c’è chi non mangia pane da più di un mese. Per questo ci ringraziano accennando un sorriso: mangiare significa sopravvivere».
OVUNQUE È COSÌ. La situazione di Bucha è sicuramente la più tragica ma la guerra con la sua scia di distruzione e sangue è ovunque. «Ciò che ora vediamo in tutta l’Ucraina è quello che accade dal 2014 nelle regioni del Donbass e del Lugansk dove, da pastore evangelico, ho fatto il cappellano militare», racconta ancora Emanuel. «Sono stato anche a Mariupol, la città cancellata dalle bombe. A Odessa stavamo scaricando e abbiamo iniziato a sentire i boati dei missili che esplodevano a terra. Subito è scattato l’allarme e ci siamo rifugiati sotto una palazzina. L’aria rarefatta, i muri umidi e senza intonaco, con giacigli improvvisati sparsi a terra dov’erano ammucchiati una cinquantina tra donne e figli che sono lì da più di un mese, abbandonati a loro stessi. Qui tante donne, anche le bambine, sono state violentate».
SI MUORE ANCHE DI SETE. Ora uno dei problemi più grandi è la mancanza d’acqua potabile perché le condutture sono state distrutte dalle bombe.
«Non si muore solo se colpiti dal nemico», prosegue Emanuel, «ma anche per la mancanza di farmaci, di cibo e soprattutto di sete. A Odessa bevono l’acqua di mare. Ho visto un anziano che si recava a un pozzo, ma i russi hanno cominciato a sparare sul contenitore fino a renderlo inutilizzabile mentre lui urlava implorando di non essere colpito. I potenti fanno le guerre, la povera gente ci rimette la vita, per questo bisogna continuare a inviare aiuti».
VINCE L’ORGOGLIO. È una guerra dominata dalla comunicazione, a volte distorta, dalla propaganda che infiamma gli animi e dove non esiste tregua, nemmeno nei corridoi umanitari. «Se ci sono dei feriti in presenza di soldati russi la Croce Rossa non può soccorrerli, hanno disseminato i campi di mine antiuomo, non si può dare sepoltura ai morti che restano a marcire per strada. Ma noi continueremo a consegnare aiuti anche sotto il fuoco nemico», dice con uno scatto d’orgoglio Emanuel.
SCAMBIATI PER SPIE. «L’auto di un nostro collaboratore è stata crivellata di colpi, lui è riuscito a salvarsi, ma viviamo sempre nel pericolo come quando gli ucraini ci hanno scambiato per spie russe: ci hanno immobilizzato, sequestrato i telefoni, aperto tutti i carichi, persino le bustine dello zucchero, ma poi ci hanno lasciato andare». Donne e bambini fuggono, ma non tutti possono scappare perché sono anziani e malati o perché non hanno chi li può aiutare.
IL CORAGGIO DI QUEL BIMBO. «Mamme e figli carichi di valigie fanno chilometri a piedi e attendono giorni al confine. C’è chi, addirittura, fugge a nuoto come un uomo che è stato soccorso dopo aver tentato di attraversare il fiume Nistro tra l’Ucraina e la Moldavia. Quando arrivano al campo profughi sono sfiniti: affamati, infreddoliti, non riescono a parlare per quanto piangono, ma restano ordinati e affidano i loro pensieri alla musica. Tra questa gente c’era un bambino malato di cancro: non ho mai visto così tanto coraggio e un sorriso così pieno di speranza. Per fortuna ora è in Italia per essere curato».
I DOLCI DELLA SPERANZA. È una lotta impari tra il terrore della morte e la voglia di vivere che spinge gli ucraini a resistere con tutte le forze. Ogni giorno, Emanuel, vive scene che farebbero impazzire chiunque.
Ma lui ha una corazza che lo protegge e lo fa continuare nella sua missione. È una corazza che si chiama solidarietà che lo fa anche sorridere mentre consegna biscotti e dolci italiani ai bambini nei bunker. «Nonostante tutto li ho visti felici. E questo mi basta».