PESCARA. Tentano di tenerla prigioniera nel mondo della notte, ma la comunità LGBTQ+ c’è ed esiste anche di giorno. Sono più di tremila le persone che hanno partecipato ieri pomeriggio alla Madonnina del Porto, dalle 15 in poi, alla quarta edizione dell’Abruzzo Pride, organizzata dalle associazioni Marsica LGBT, Presenza Femminista, Cgil (Pescara, Chieti,Teramo) e Arcigay (Pescara, Aquila, Chieti e Teramo).
Alle 16.30 l’arrivo del carro da parata delle drag queen, sulle note di “Pedro”, “I Follow Rivers”, e altre canzoni internazionali come “Freed From Desire” e “Up & Down”, segna l’inizio del corteo Pride e, da lì fino alle 18.30 (orario di fine corteo) non ci sono più stati gay, lesbiche, bisessuali, transgender, queer ed etero, ma solo persone che, cantando e ballando insieme, sono diventate tutte parte di una grande comunità, pronta a manifestare «per la libertà di ogni essere umano e per l’autodeterminazione, perché», dichiara il portavoce dell’Abruzzo Pride, Fabio Milillo, «alla fine il Pride è proprio questo, una lotta a favore di tutti i diritti».
“Disobbedite”, “L’amore è di tutti”, “God save the queer” sono solo alcuni degli slogan che, insieme alle centinaia di bandiere arcobaleno, hanno riempito Lungomare Matteotti, Piazza 1° Maggio, via Gramsci, via Galilei, via Venezia, via Firenze, via del Concilio e Piazza Italia per poi ritornare a festeggiare tutti insieme alla Madonnina, fino a tardi, con il concerto delle drag queen.
«È importante essere qui oggi, ma non tanto per noi, ma per chi verrà dopo», dichiara Andrea (36anni) cresciuto a Pescara e residente da dieci anni in Inghilterra, «la celebrazione del Pride in Abruzzo, specialmente qui a Pescara, è fondamentale perché se siamo arrivati qui oggi con qualche diritto in più rispetto a dieci anni fa, significa che possiamo e dobbiamo spingere per puntare ancora più in alto».
Non solo dunque una giornata di divertimento tra musica dal vivo, cibo e parata, ma anche un modo per «riunirsi tutti insieme e parlare di tematiche importanti perché, sia a livello regionale che nazionale, siamo molto indietro per quanto riguarda, ad esempio, la tutela dei gay nel mondo del lavoro. Infatti conosco persone che in Abruzzo, così come in altre regioni, preferiscono non far capire di essere gay sul posto di lavoro e questo perché temono di essere licenziate. Invece a Manchester, dove vivo, i dipendenti delle grandi aziende sono tutelati grazie all’Equality Act del 2010, una legge che protegge tutti i lavoratori contro il bullismo e le discriminazioni legate all’orientamento sessuale. Per non parlare poi», continua Andrea, «del matrimonio egualitario, dell’adozione e della maternità surrogata che il nostro governo vuole far diventare un reato universale, mettendoci così in forte imbarazzo dal momento che negli altri paesi europei sono presenti legislazioni che non solo la consentono, ma la disciplinano».
«Penso che quando arriverà il momento di avere una famiglia, me ne andrò dall’Italia», dichiara Michael Riccio di Teramo, «la mentalità è troppo chiusa e sinceramente, in futuro, penserò più a tutelare i miei figli perché, anche se la legge può andare avanti e migliorare con gli anni, la società non sarà mai del tutto pronta, di questo ne sono certo. Qui in Abruzzo, ad esempio, non mi sento tutelato e devo dire che a Perugia, la città dove mi sono laureato, ho trovato un ambiente più aperto e non a caso la mia sessualità l’ho vissuta lì. Qui, invece, quando esco con il mio ragazzo mi capita di sentirmi un po’ a disagio anche solo a tenergli la mano in pubblico, perché conosco bene come ragionano le persone. Si tratta di gente piena di pregiudizi verso comportamenti che ritengono sbagliati o inappropriati, e che tali ovviamente non sono».
Ma, nonostante questo, si protesta con orgoglio e «si va avanti a testa alta», dichiara Beatrice di Pescara, «essendo una ragazza transessuale mi capita spesso di ricevere insulti e addirittura sputi quando cammino per Pescara, ma ho deciso di vivere per me e non per quello che pensano gli altri. Devo dire che ho sempre cercato di reprimere quella che sono anche perché vivo in un quartiere dove la mentalità è provinciale, ma nell’ultimo anno ho deciso di dire basta. Certo i pregiudizi ci sono sempre, e si vanno a creare situazioni complesse anche in ambito lavorativo, dove non sai effettivamente se ti è concesso presentarti vestendo i panni che vuoi. Tutto questo è preoccupante perché, alla fine, siamo solo persone normali e con molte competenze. L’unico modo per farlo capire è quello di migliorare le due istituzioni chiave, ovvero la scuola e la famiglia, perché possiamo aumentare le leggi quanto vogliamo ma è dal punto di vista culturale che il nostro paese deve cambiare. La cosa bella della nostra comunità», sottolinea, «è proprio data dal fatto che cerca di agevolarti sotto tutti i punti di vista. Qui ognuno di noi si riconosce nelle difficoltà dell’altro e sono convinta», conclude Beatrice, «che questo sia un concetto che il resto della società debba assorbire, perché si tende sempre a ragionare per stereotipi, senza mai guardare le difficoltà del singolo».
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