
Anche questa volta lo Stato non ha avuto il coraggio di condannare lo Stato. Tutto già visto. Un brutto film che si ripete. Il finale, purtroppo, era già scritto anche se per anni _ da quel gennaio 2017 _ c’è chi si è battuto per “verità e giustizia” che a questo punto diventano parole scritte sull’acqua. Le grida di alcuni dei parenti delle vittime quando ieri pomeriggio è stata pronunciata la sentenza Rigopiano, mi hanno ricordato quelle di Vincenzo Vittorini _ e di altri suoi compagni di sventura _ nell’aula della Corte di appello dell’Aquila alla fine del processo Grandi Rischi. I giudici avevano appena deciso di assolvere gli imputati meno uno, diventato capro espiatorio per tutti. Nel caso aquilano si disse che la colpa della tragedia era stata di «un buon bicchiere di vino di Ofena», parole pronunciate _ a mo’ di rassicurazione su possibili future forti scosse _ dal vicecapo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis prima della riunione della commissione Grandi Rischi del 31 marzo 2009. La sentenza arrivò persino a negare che quella riunione si fosse ufficialmente svolta.
Nel caso Rigopiano confesso che dalle poche condanne e dalle tantissime assoluzioni, emerge una sola certezza: che per quelle 29 vittime nessuno pagherà se non, anche in questo caso, qualche capro espiatorio. Cercando di trovare una sintesi a quello che è accaduto ieri, ho pensato che siamo passati da “un bicchiere di vino” a una sorta di “abuso edilizio”. Le vittime come per il terremoto dell’Aquila sono ormai solo dei nomi stampati su carta. Quelle esistenze, quei sogni, quelle aspettative di vita, il dolore di chi resta saranno delle flebili tracce dentro “carte” che presto finiranno in uno scantinato del palazzo di Giustizia coperte dalla polvere della storia e da una “percepita” ingiustizia che affonderà di nuovo il coltello nelle piaghe di chi soffre l’indicibile, loro sì condannati “all’ergastolo”: quello che di notte ti sveglia, ti tormenta, ti uccide le ore, ti fa piangere e disperare salvo poi che all’alba devi trovare la forza di ricominciare a vivere con la morte nel cuore.
Ma questa sentenza _ per chi come me ne ha viste altre simili _ non è del tutto una sorpresa. Autocitarsi non è elegante. Eppure ieri mattina, in attesa della sentenza annunciata nel pomeriggio, sono andato a cercare sul web una cosa che avevo scritto nel novembre del 2017. Più di 5 anni fa. Erano i mesi in cui ogni giorno sulla stampa venivano fuori indiscrezioni sulle indagini. La sensazione era che nella vicenda Rigopiano c’era stata una assoluta impreparazione, a tutti i livelli (dalla prefettura ai Comuni). Cosa che _ va pure detto _ c’è quasi sempre nelle emergenze, quelle vere, che non sono videogiochi. La vicenda Rigopiano ricorda da vicino ciò che era emerso _ al di là degli esiti processuali _ proprio dal processo Grandi Rischi relativo alle informazioni “superficiali” _ per usare un eufemismo _ che la Protezione civile diede agli aquilani prima della forte scossa del 6 aprile 2009. In sostanza un gran coacervo di improvvisazione. Il finale di quell’articolo che scrissi 5 anni fa era il seguente: «Le colpe di Rigopiano? Vedrete che alla fine tutto finirà a tarallucci e vino come è successo per la Grandi Rischi. La responsabilità, anche penale, presuppone a monte professionalità, competenza e consapevolezza. In questo caso _ visto quello che sta emergendo _ forse prevarrà l’incapacità di intendere e volere. Che come è noto è la scappatoia più facile per non pagare le colpe».
Adesso comincerà la solita tiritera: le sentenze vanno rispettate (e io personalmente l’ho sempre fatto anche se ho avanzato dubbi), vedrete che in secondo grado la verità tornerà a trionfare, non diamo giudizi affrettati, aspettiamo di leggere bene le motivazioni, se il giudice ha deciso così aveva le sue ragioni e altre cose del genere. Io però penso a quei padri, madri, figli, parenti che ieri sera sono tornati a casa e hanno acceso un altro lumino sulla loro finestra. Sì perché dentro il cuore e nella loro mente c’è una sola convinzione: i nostri cari sono stati uccisi di nuovo e il dolore è forse ancora maggiore della prima volta. Allora c’era lo choc, lo stordimento, l’incredulità. Oggi c’è rabbia, impotenza, voglia di gridare al mondo che ingiustizia è fatta, tentazione di spaccare tutto.
Ho visto _ sulle sedie dell’aula dove è stata pronunciata la sentenza _ le magliette con la foto di chi non c’è più. Ecco. Il ricordo. Questa è l’unica cosa che nessuno potrà cancellare. Il tempo non ha mai lenito il dolore, quello vero, quello che ti lascia senza fiato e che ti fa venire persino brutti pensieri. Al tormento spesso si uniscono due sentimenti. Uno positivo quando, grazie al ricordo, ti rendi conto che chi ti ha lasciato è sempre con te, ogni secondo. L’altro amaro: quando pensi a quello che poteva essere e non è stato. Dopo la sentenza Grandi Rischi, lo ammetto, ho deciso, forse sbagliando, di non combattere più nelle aule di giustizia. Pur frequentandole, se pur raramente per lavoro, ho cominciato a sentirle estranee. È come se lì dentro non ci sia la vita vera, le sofferenze delle persone coi loro problemi e le loro angustie. Sembra tutto ovattato tra tecnicismi e infiniti cavilli.
La Giustizia è questa, diranno subito gli addetti ai lavori. Certo la Giustizia va garantita sia alle vittime che ai presunti colpevoli i quali, come nel caso di ieri, sono stati in gran parte assolti. Su questo non ci piove. Ma le grida sdegnate dei parenti delle vittime di Rigopiano qualcosa pur devono dirci. E farci riflettere. Tutti.
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