L’AQUILA. «Sai quanti Casalesi lavorano all’Aquila…». Così diceva Alfonso Di Tella, intercettato nell’inchiesta Dirty Job sulla ricostruzione dell’Aquila e sulle infiltrazioni della camorra, a un imprenditore locale. Il casertano di origine a condanna non ci è arrivato, perché morto nel 2017 mentre si svolgeva il processo in cui era imputato per estorsione, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Ma i due figli, imputati con lui, sì: ieri il tribunale dell’Aquila ha inflitto la pena di sette anni e quattro mesi di reclusione, oltre a 18mila euro di multa e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ai fratelli Domenico e Cipriano Di Tella. Ricostruiamo il processo partendo dalla fine.
LA FINE: LA CONDANNA SIMBOLO
«L’inchiesta culminata nella condanna risale alle prime fasi della ricostruzione post-sisma, a giugno 2014, quando le indagini portarono alla luce un consolidato “sistema” di sfruttamento di operai per lo più casertani, segnatamente provenienti da Casapesenna, il paese del capo clan Michele Zagaria»: parola del procuratore della Repubblica Michele Renzo. Continua il magistrato: «Gli operai campani, reclutati nei paesi ad alta intensità camorristica a nord del Napoletano tra le persone in maggiore stato di bisogno, venivano condotti al lavoro nei cantieri della ricostruzione aquilana, ove operavano formalmente sia ditte degli stessi Di Tella che ditte aquilane. In tutti questi cantieri vigeva un singolare regime di sfruttamento e soggezione a danno dei lavoratori, ai quali veniva accreditata la regolare retribuzione risultante dalla busta paga e conforme ai contratti collettivi. Tuttavia, subito dopo il pagamento, gli operai erano costretti, con la minaccia del licenziamento, a restituire gran parte dell’importo ai Di Tella, con consegne di denaro in contanti a volte ottenute anche accompagnando l’operaio presso lo sportello del bancomat per garantirsi la restituzione della somma subito dopo l’accreditamento». Poi ancora Renzo, togliendo ogni dubbio sulla presenza della camorra nel post-sisma: «Il quadro di sfruttamento, che realizzava un caso esemplare di infiltrazione della malavita organizzata nella ricostruzione aquilana e un principio di grave inquinamento dell’economia della città, è stato riassunto dalla procura distrettuale dell’Aquila con diciotto imputazioni di estorsione per le quali è intervenuta condanna, mentre il tribunale ha pronunciato l’assoluzione per due imputazioni minori».
L’INIZIO: L’INCHIESTA DIRTY JOB
L’inchiesta Dirty Job fu resa di pubblico dominio in una conferenza stampa andata in scena il 25 giugno 2014. Tanto importante, perché mostrava l’infiltrazione dei Casalesi nella ricostruzione post-sisma, che per l’occasione parlò anche l’allora procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, insieme al capo della procura aquilana Fausto Cardella e al pm David Mancini, oltre ai vertici della guardia di finanza regionale. L’indagine era in realtà partita nel 2012, terminando con sette arresti. Tre subito in carcere: Alfonso, Domenico e Cipriano Di Tella, appunto, accusati anche di estorsione con metodi mafiosi oltre alla intermediazione illecita negli appalti. Ai domiciliari, invece, finirono l’ingegnere avezzanese Michele Bianchini e gli imprenditori aquilani Elio Gizzi e Dino Serpetti – che patteggiarono poi un anno e otto mesi di reclusione – e Marino Serpetti – che fu invece prosciolto su richiesta del pm – tutti accusati di intermediazione illecita negli appalti. Altri tre gli indagati a piede libero, venti invece le perquisizioni. «Acquisivano quante più commesse possibili a prescindere della loro capacità tecniche e di organico», spiegò Mancini riferendosi agli imprenditori aquilani, «poi si affidavano alle imprese dei Di Tella, vicine ai Casalesi, che reperivano manodopera a Casapesenna e Casal di Principe». I Di Tella «portavano e alloggiavano all’Aquila quei lavoratori, li facevano assumere dagli imprenditori aquilani, che alla fine emettevano una busta paga con importi corretti, ma poi la offrivano ai Di Tella che gestivano una contabilità separata e occulta». Da quella conferenza uscì fuori che erano una decina i condomìni appaltati a persone vicine ai Casalesi per 20 milioni di euro di lavori, ma anche che tutte le opere erano state eseguite a regola d’arte. Dopo sette anni di ritardi è arrivata la condanna simbolo.
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