PESCARA. Il giorno dopo la tanto contestata sentenza che ha assolto 25 dei 30 imputati del processo di Rigopiano, ridimensionando drasticamente l’impianto accusatorio, il procuratore della Repubblica, Giuseppe Bellelli, che ha sostenuto l’accusa con i colleghi Andrea Papalia e Anna Benigni, è pronto a presentare appello appena sarà in grado di leggere le motivazioni della sentenza emessa dal gup Gianluca Sarandrea. «Certamente non condividiamo questa sentenza, che merita rispetto come ogni sentenza, e presenteremo appello nei confronti di tutte le posizioni per le quali abbiamo chiesto le condanne. Certo, prima è necessario leggere le motivazioni anche se il materiale è quello. Le nostre valutazioni le abbiamo fatte». Ma il procuratore difende il giudice: «Va detto», dice, «che vedere queste prese di posizione fa male alla giurisdizione e alla giustizia. Il giudice va difeso oltre che dalle manifestazioni che ci sono state in aula, anche dal dileggio da ogni parte provenga. Esprimo vicinanza a Sarandrea e rispetto la solitudine della sua decisione».
A mente fredda, quali riflessioni può fare sulla sentenza?
«Mi aspettavo le condanne solo sul Comune di Farindola e la Provincia: avevo messo in conto che non avrebbe condannato la Regione e il Prefetto, per come vanno le cose. Ma mi ha colpito l’assoluzione dal falso di Provolo per quanto riguarda l’allestimento della sala operativa e del centro coordinamento soccorsi. Non posso condividere, come detto in aula, la tesi difensiva sul fatto che comunque le funzioni erano state esercitate. E poi, comunque, leggendo le motivazioni, andrà approfondito un ulteriore passaggio che riguarda la sua posizione, perché la sentenza condanna solo per la gestione di quei giorni: la strada, la mancata chiusura dell’hotel, e in quei giorni c’era di mezzo anche il Prefetto. Per cui se ci fossero stati la sala operativa attivata e il centro di coordinamento attivati, la mancanza della turbina, ad esempio, poteva essere risolta perché sarebbe venuta fuori, così come il problema dell’isolamento della struttura. Veniva fuori anche dalle chiamate di Gabriele D’Angelo che non si sa quale fine abbiano fatto. Si sarebbe fatto fronte a tutte le problematiche, per cui mi ha colpito il fatto che, pur avendo limitato il proprio profilo di condanna a questa fase, non abbia inserito anche il Prefetto. Le mie previsioni non erano certo sulla fondatezza o meno delle contestazioni, ma sulla conoscenza di come vanno queste cose. Mi aspettavo condanne solo su Comune e Provincia, ma più diffuse».
E sulla questione del disastro colposo praticamente cancellato cosa ne pensa?
«Addirittura con la formula perché il fatto non sussiste. Sostanzialmente penso che in questa sua decisione il giudice si sia basato sulla imprevedibilità dell’evento o sul nesso di causalità. Credo abbia ripreso la perizia che parla di prevedibilità in astratto e non in concreto, peraltro un concetto che non poteva esprimere la perizia secondo me».
Cosa non la convince di questa sentenza dal punto di vista strettamente processuale e poi umano.
«Processualmente ho visto che nei capi in cui ha condannato c’è una parte di assoluzione e una parte di condanna, e questo non si comprende. Per lo stesso capo di imputazione ha condannato e assolto Lacchetta. Come se in un processo per rapina a mano armata si condannasse per la rapina armi in pugno e si assolvesse per le percosse ai dipendenti. Il perché di questo distinguo mi lascia perplesso. Lo spiegherà certamente nelle motivazioni, ma ora non riesco a comprenderlo. Dal punto di vista umano mi riporterei alla replica che ho fatto in aula. Sono stato vicino alle parti offese che hanno sofferto molto. Nei loro confronti abbiamo fatto anche un’opera di preparazione alla sentenza. Abbiamo sempre spiegato loro che poteva anche non disporre tutte quelle condanne richieste e che le pene potevano essere diverse. Lo dici come previsione, dopodiché non solo sono state poche, ma anche molto più basse e ridimensionate».
La tesi accusatoria è stata completamente sconfessata dopo il complesso lavoro che avete fatto in fase di indagini e di stesura delle accuse. Forse 30 imputati erano troppi, così come 151 anni di condanna?
«Io dico sempre ai miei sostituti che i processi complessi non li voglio vedere. Si deve semplificare il più possibile perché andare a dimostrare le responsabilità di tante persone diventa difficile. Però voglio dire che, in questo caso, la ricostruzione dei fatti è completa, non come ha sostenuto qualche parte civile commentando la sentenza. Questa decisione di inserire tanti imputati non l’ho presa io perché non ero ancora arrivato a Pescara, ma l’ho condivisa perché ho pensato che tenere fuori determinati soggetti e determinate istituzioni per poi sentirsi dire, in sentenza, atti al Pm perché proceda nei confronti di questo o quell’altro ente, non era il caso. Siccome ognuno di questi enti ha messo le mani sulla vicenda Rigopiano e non ha fatto il proprio dovere, noi riteniamo che tutti sono causali. Gli atti processuali, poi, documentano come le indagini sono state svolte in ogni direzione: i reati contestati riguardano esponenti di tutti i settori delle pubbliche amministrazioni interessate alla vicenda dopo che, prima del processo, 22 posizioni erano state archiviate».
Cosa le lascia questa sentenza?
«È un discorso complesso. Perché è chiaro che il giudice non deve cercare il consenso, però questa sentenza non è solo molto lontana dalle aspettative della gente, ma forse troppo lontana dalla realtà. Perché poi, a sensazione, tutti restano sconcertati e quindi evidentemente si è davvero troppo lontani dalla realtà e questo vuol dire che qualcosa che non funziona c’è. Io sono il primo a non condividere il processo mediatico: i “tutti colpevoli” non si sopporta. Però, quando c’è una distanza così forte tra la percezione di quale è l’esigenza di giustizia e poi quella realizzata in sentenza, qualche domanda ce la dobbiamo porre. Alla fine, e comunque, tre responsabili ci sono: non è vero che il giudice ha detto tutti assolti. Ma una sentenza che ridimensiona tanto l’impianto accusatorio che aveva una sua coerenza, rischia anche di essere più fragile nella parte in cui condanna».
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