Era il 26 febbraio 2020 quando l’incubo del Covid19 travolse l’Abruzzo. Un turista proveniente dalla Brianza che si trovava a Roseto degli Abruzzi con la sua famiglia risultò positivo al primo test molecolare e venne ricoverato nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Teramo. I risultati vennero poi confermati dallo Spallanzani di Roma dove il paziente venne trasferito. Da allora sono passati esattamente tre anni, tutto è cambiato e l’Abruzzo di oggi non è più quello di allora sotto tanti punti di vista. Il primario del reparto di Malattie infettive dell’ospedale di Pescara, Giustino Parruti, dal primo giorno in trincea contro il coronavirus, ricordando quel periodo tiene a sottolineare i molti aspetti positivi che caratterizzarono l’Abruzzo e gli abruzzesi.
Come reagì l’Abruzzo di fronte all’arrivo del virus?
Io ricordo quei giorni in modo molto positivo perché ci fu una grossa solidarietà tra amministratori, decisori e direzione strategica. Ci fu grande disponibilità a preparare la logistica che poteva servirci. Tra il 21 e 28 febbraio trasformammo il reparto di Malattie infettive arrivando a ricoverare 22 malati. Una situazione che richiedeva molto personale. Ma ci venne in aiuto anche la rapidità con cui i malati furono spostati dalle case di cura convenzionate. Si creò un gruppo di lavoro multidisciplinare che si mosse in modo ben coordinato. Ricordo bene anche qualche giorno dopo, e precisamente il 9 marzo, quando ricoverammo in rianimazione cinque persone. Capimmo che non sarebbe più stata la stessa cosa».
In che senso?
Era un sabato e noi avevamo fatto i turni la mattina. Ma nella confusione non mi ero posto il pensiero di come poter organizzare la mattina di domenica. Rimasi senza parole quando uscendo dal reparto trovai tutto il personale al completo, pronto a entrare in servizio. Conservo ricordi di grande solerzia e solidarietà di fronte a una cosa totalmente nuova e più grande noi. Decidemmo di gestire tutti i pazienti con un’unica regia in modo da controllare tutti i pazienti più critici insieme con l’aiuto degli anestesisti. Sapevamo dove erano i malati più fragili e potevano essere gestiti in modo più efficiente. Io credo che ora non dobbiamo perdere quell’unità di intenti e di coordinamento che gli italiani sanno tirare fuori nei momenti più difficili.
Di cosa è particolarmente orgoglioso?
Del fatto che in questi tre anni non abbiamo dovuto mai negare un posto in rianimazione a nessun paziente. I 22 posti della rianimazione non bastarono e ne attivammo altri al primo piano, arrivando a 35. Poi nella seconda ondata addirittura a 46 e fu quello il periodo più drammatico. C’erano 364 pazienti Covid a fine febbraio del 2021, più del doppio della prima ondata.
Cosa invece è mancato?
L’unica cosa che è mancata è quello che non deve mancare più per il futuro. Avevamo meno posti di assistenza di quelli che necessari. Si è capito che dovevamo incrementarli stabilmente. Quello che manca ora è la certezza di poterli mantenere questi posti e di non fare come il gambero. Mancano dei passaggi legislativi affinché ciò si verifichi.
Cosa ci ha caratterizzato e contraddistinto?
Una regia regionale che ha permesso, a seconda delle entità delle ondate, un forte interscambio tra ospedali e strutture anche di diverse Asl, come accaduto tra Pescara e L’Aquila o Teramo e Pescara. Da noi è stato particolarmente ben coordinato questo aspetto. E poi c’è stata una grande solidarietà del territorio. Non ci è mai mancata una mascherina, un camice, un sostegno. Anche i commercianti facevano a gara per portare qualcosa da mangiare la sera, l’incoraggiamento della popolazione. Tanta solidarietà.
Cosa è cambiato da allora in Abruzzo?
Se c’è una cosa veramente importante che è cambiata è la cultura della gestione delle infezioni. Vedo tanti operatori sanitari che ora capiscono quanto sono determinanti degli spazi adeguati per gestire le infezioni. E non parlo solo del Covid, ma anche dei germi difficili. Non c’era una consapevolezza di quanto fosse importante gestirli bene. Nelle nuove strutture ora tutto e diverso e viene organizzato in modo ottimale. Oggi, ad esempio, nel nostro reparto di geriatria non ci sono letti aggiuntivi, sono presenti spazi adeguati, protocolli più ferrei. In modo per salvaguardare anche i nostri anziani.
Non è dappertutto così però?
Ma sappiamo che dovrà esserlo.
Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?
Se guardiamo a cosa è successo in Italia con la circolazione delle ultime varianti e quello che è successo in Cina sappiamo darci una risposta certa: tutto dipenderà dalla politica di vaccinazione. Da noi ora abbiamo un ombrello vaccinale che impedisce l’emergenza delle nuove varianti. In questo specifico momento non accadrà nulla di nuovo. Ma se tra un anno mancheremo di fare i richiami vaccinali e ci dimenticheremo di quanto è stato brutto questo periodo, e non ci vaccineremo annualmente, allora rischiamo di ritornare al punto di partenza, se non peggio. In Cina hanno sbagliato totalmente la politica vaccinale. Non dobbiamo dare spazio alle nuove varianti.
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